Maria Triassi, prima preside di Medicina alla Federico II: «In guerra contro il Covid non si può andare senza soldati»

Maria Triassi, prima preside di Medicina alla Federico II: «In guerra contro il Covid non si può andare senza soldati»
di Maria Chiara Aulisio
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Mercoledì 25 Novembre 2020, 14:34 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 22:02

«Le quote rosa non mi sono mai piaciute. I posti al vertice devono essere occupati per competenza e professionalità. E se la mia nomina arriva subito dopo quella di Antonella Polimeni sullo scranno più alto della Sapienza di Roma, non può che farmi piacere».

Maria Triassi – direttrice del Dipartimento di sanità pubblica – è il nuovo preside della scuola di Medicina e Chirurgia della Federico II di Napoli. Quasi un plebiscito per lei: 61 preferenze su 72 votanti, sette schede bianche e quattro nulle. Un trionfo e un invidiabile primato: quello di essere la prima donna nella lunga storia dell’antica università partenopea – insieme con Rita Mastrullo, appena diventata prorettrice – a raggiungere la vetta. Bella soddisfazione. «Certo. E non per una questione di genere. La mia elezione rappresenta un riconoscimento alle competenze, agli anni di duro lavoro e alla capacità di ricoprire ruoli di gestione. Null’altro».

Quale sarà la sua strategia nel governo della Facoltà in tempi di pandemia?

«Il Covid ha messo in evidenza l’importanza di essere pronti, flessibili e formati per ogni evenienza. Una delle ragioni che ha mandato in tilt l’intero sistema – e non parlo solo del nostro Paese – è stata questa: farsi cogliere impreparati».

Ha già un piano?

«Il lavoro è tanto ma sono pronta a farlo. In un’epoca così difficile c’è un gran bisogno di persone che abbiano gli strumenti giusti per provare a sperimentare un nuovo approccio a valle della pandemia».

Dove si comincia?

«Mi pare che a soffrire di più siano stati il mondo della scuola, quello dell’università e della giustizia. Istituzioni da valorizzare e invece svuotate nel tempo di ogni risorsa: al momento opportuno si sono ritrovate a combattere senza armi.

Difficile vincere così».

Ha parlato di preparazione e formazione.

«Diversamente non si va da nessuna parte. L’università in genere deve cambiare passo se vuole contrastare la concorrenza degli atenei privati e telematici sempre più agguerrita».

A cominciare dalla didattica.

«Non sarà facile reggere all’urto della pandemia. C’è bisogno di innovazione valorizzando l’apprendimento interattivo. Servono giovani sempre più preparati, dobbiamo formare professionisti abili e capaci. E i policlinici universitari hanno ancora molte carenze da colmare».

Da quale punto di vista?

«Dagli spazi da ristrutturare agli organici sempre più esigui mentre è indispensabile reclutare professionisti di alta qualità. Per quanto mi riguarda dovrebbero cambiare pure i criteri di scelta dei manager».

Mancanza di ricambio generazionale, insomma.

«Va detto che per decenni la sanità pubblica ha patito il blocco delle assunzioni. Ora però dovranno venirci incontro per superare lo stallo in cui siamo finiti. E le temporanee assunzioni dei neolaureati pagano il prezzo della scarsa esperienza. Non si può andare in guerra senza soldati».

Una “guerra” contro un virus ad alta pericolosità. Come valuta le misure di sicurezza messe in campo?

«Secondo me – mediamente – rappresentano un buon compromesso tra prevenzione e contagio. L’obiettivo deve essere quello di non distruggere la psiche delle persone e l’economia».

Se dipendesse da lei che cosa farebbe per contrastare l’emergenza nel Paese?

«Tre misure buone per tutte le regioni. Prima: utilizzo massiccio dei tamponi rapidi. Seconda: garanzia di una seria assistenza territoriale per i pazienti Covid. Terza: mai trascurare le altre patologie che il virus non ha certamente cancellato. Così facendo si sono salvati il Lazio e il Veneto».

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