L’attore Francesco Gheghi, da “Familia” a “40 secondi”: «La violenza si combatte con l’educazione»

Io sono figlio di mio padre: una frase che perseguita se sei figlio di un padre violento. Un graffio all’anima che resta cicatrice; una profezia che si autodetermina.

Quella frase spunta – chiarissima pietra d’inciampo – nel film Familia, di Francesco Costabile, film italiano candidato agli Oscar 2026 e accolto con grandi applausi a Venezia nel settembre 2024.
Luigi Celeste è quel figlio e, dopo anni di violenza assistita, uccide suo padre. Scontata la sua pena, si è ripreso la sua vita. Ha scritto un libro e assistito a questo film rivedendosi in Francesco Gheghi, giovane stella nascente del cinema italiano, che per questa interpretazione si è meritato il premio come miglior attore della sezione Orizzonti. Francesco ha 23 anni e da un po’ si sta portando sulle spalle un compito importante: raccontare la violenza al pubblico, ma in particolare ai suoi coetanei. Ora è al cinema con un ruolo importante in 40 secondi, il film che racconta la fine tremenda di Willy Monteiro. Lo fa con «senso di responsabilità morale», ma anche grazia e consapevolezza: sa di partire da un punto di riferimento che lo corazza. «Io sono stato inondato da secchiate d’amore della mia famiglia. Mamma e papà hanno scelto, amandomi così, di rendermi fortunato».

Gheghi, volevamo lei perché intorno al 25 novembre, che è tutti i giorni prima e dopo, era giusto parlare con un maschio e un maschio giovane. Assistiamo a episodi di violenza feroce dei più giovani tra loro: dalla violenza di genere, come quella che vediamo in Familia, a quella del branco che viene raccontata in 40 secondi.

«Quella frase in Familia racconta di quando la violenza la respiri fin da piccolo e come siano determinanti quegli anni di formazione: è biologia. Ti allinei a quella normalità. Ma c’è un altro dialogo del film che mi ha colpito e che parla alla nostra generazione: i fatti sono successi nel 2008 e la legge sullo stalking in Italia viene introdotta nel 2009. La prima fidanzata di Luigi gli chiede: “Mi segui?” e lui risponde “Perché è sbagliato?”. È una frase iconica: l’ho sentita raccontare mille volte tra gli amici, l’ho sentita nelle scuole quando andavamo a parlare del film. Questo senso del possesso che poi ha generato i mostri di cui parlava lei. Frase iconica e tremenda. Qualcosa, però, sta succedendo. Io vedo sempre più teste lucide tra noi ragazzi, una generazione più intelligente: respiriamo tanta violenza, ci passiamo accanto ogni weekend nella movida magari, ma stiamo cominciando a rifiutarla. Cominciamo a ritenere inaccettabile che un ragazzo perda la vita perché qualcun altro fa un apprezzamento a una ragazza, come capita a Willy».

Viene in mente il paradigma Cecchettin: il possesso che diventa criminale.

«C’è un’altra parte della nostra generazione che questa educazione all’amore non l’ha ricevuta. E non ha dalla scuola o dalla famiglia la preparazione alla sessualità, all’emotività. Così ti capita di sentire che le ragazze accettano di prendere un ceffone dal fidanzato o il controllo del cellulare. “Perché mi vuole bene”, ti rispondono. Così si perdono i segnali negativi di quello che chiamano amore. Io penso di sapere cos’è l’amore, ho avuto la fortuna di sentirlo e le parole sono dolci, chiare e non subdole come nel paradosso del possesso. Io ho visto l’amore dei miei tra loro e ho imparato. Ho avuto una prima storia bella con una donna: la prima storia è determinante. Dopo puoi confrontare i sentimenti e i gesti: quelli che fanno soffrire e quelli che appagano davvero. Cosa ti piace e cosa no. E viceversa».

Tirati in ballo i genitori: che ruolo hanno?

«Ricordo molto bene una volta, eravamo ragazzini, in macchina con la madre di uno di noi, tutti maschi, e lei che parlava della ex di uno di noi. Si erano appena lasciati e quella signora la apostrofava: lascia perdere quella puttana. Voleva attutire il dolore del figlio con cui, invece, devi fare i conti. La pillola indorata non serve: che aveva fatto quella ragazzina di male? Dell’amore e di quando una storia finisce si dà una rappresentazione semplicistica. Come se uno stesse volando e l’altro sotto o uno che affronta una strada tortuosa e l’altro cammina su un viale di petali di rose: si cammina insieme, anche se ci si separa poi».

Nelle interviste parla spesso di educazione.

«Solo quella ci può liberare dal patriarcato: la figura maschile va riletta con una educazione nuova all’idea di possesso, al linguaggio che usiamo nei confronti delle ragazze: lo chiamiamo goliardia, ma poi diventa qualcosa di più profondo. Quando stavo in comitiva ero il primo a sbeffeggiare, poi a un certo punto ho cominciato a provare fastidio e a dirmi: ma che cazzo stai a dì, France’… Ho imparato. Ma è una cosa che ti va insegnata da piccolo. Ho imparato anche a schivare».

Schivare: in 40 secondi c’è una gioventù bruciata che non sa schivare la violenza.

«Ho imparato a schivare le sbroccate, ad andarmene. La storia di Willy si ripete: un cazzotto può uccidere. Io la paura della violenza l’ho provata: ero piccolo e venni messo in mezzo da uno più grande. Voleva picchiarmi e mi avrebbe fatto male: gli ho fatto pena e mi ha detto “nun te posso manco menà, sei troppo piccolo”. Alla paura subentrò anche l’umiliazione. Quando ci ripenso mi fa male. E se mettiamo insieme la violenza di genere e quella tra ragazzi, se penso agli anni che passano dalla storia di Luigi Celeste e quella di Willy, dal 2008 al 2020, è una strage. Di gente che ritiene intollerabili cose che non lo sono e scatena la violenza. I casi, oggi, sembrano dieci volte di più con i social: tutto è super raccontato».

A Venezia colpì il suo pianto sincero e felice per il premio.

«Sono salito sul palco e volevo essere solo quello che sono: ringraziare quell’amore che mi ha consentito di inseguire il mio sogno. Una fortuna che ho messo a frutto. A me piace piangere, chi se ne frega di chi dice che i maschi non devono: quando piango tiro fuori cose importanti».

Il pianto è un gesto fisico, l’impressione è che proprio il rapporto fisico manchi o si gestisca male.

«Penso ci sia un problema sul come e quanto la gente si incontra davvero: sul set incontro persone ed emozioni tutti i giorni, una fortuna. Questo mi fa pensare al fatto che un piano B io non ce l’ho mai avuto. A noi ragazzi ci mettono in testa che la scelta che fai a 13 anni, quando scegli il liceo ti vincoli per 5 anni. Poi la maturità. Penso a mia sorella che scelse il linguistico e che ora studia moda. E invece di porte girevoli, poi, ne scopri tante. Invece poi la gente ci resta male, se si accorge di aver sbagliato: come se fosse spalle al muro. Pensa a Gigi Celeste».

E lui di cicatrici addosso ne ha.

«Quella della violenza assistita e subìta, poi l’altra del carcere: 9 anni, pena scontata. Io penso che educare alla libertà, al non sentirsi spalle al muro, è compito dei genitori. Poi nella vita puoi anche cercare e trovare la redenzione: educazione e redenzione, forse è un bel titolo, no? E tutto parte dalle donne».

La storia di Willy e di 40 secondi l’ha vissuta da vicino di casa: lei di Marino, quella tragedia successa a Colleferro. Ha conosciuto Gigi Celeste.

«Gigi ha fatto una cosa enorme: è stato bellissimo osservare i suoi occhi cambiare alla prima visione del film: occhi buoni, è stato un leone per come ha affrontato la vita. Raccontarsi gli ha regalato serenità e un dopo».

Ora decolla 40 secondi e girerà nelle scuole, mentre Costabile porta Familia nel mondo per la candidatura all’Oscar.

«Familia parla anche di istituzioni italiane non pronte nel 2008, ci sono leggi nuove. Non basta, ma qualcosa da allora si è mosso: il codice rosso, la formazione delle forze dell’ordine. Ma ora Familia diventa dibattito anche negli Usa e ovunque questo sia un tema sociale. A Venezia il premio me lo ha dato una giuria internazionale: quante Familia ci sono nel mondo?».

Ha appena finito di girare un film con un attore che forse per lei è un modello: Valerio Mastandrea. Il suo pantheon?

«Non ci avevo mai recitato insieme, ma è un mio maestro da sempre anche se non lo sapeva. Come Elio Germano, Favino, Marinelli. E De Niro che ho tatuato su un braccio».

A 23 anni anche un corto da regista: come se da figlio fosse diventato padre.

«Mi piace girare da regista: da umano giochi a fare Dio per la storia che racconti. Non farei parallelismi con la paternità».

Ma Gheghi si pensa padre, un giorno?

«Assolutamente. E vorrei una figlia femmina: amo talmente le donne che penso non possa esserci amore più grande di quello di un padre per la figlia della donna che ami. Non è un capriccio, non è come chiedere un Gormito a Natale. Comunque la risposta è sì: voglio avere una famiglia. Con la G».

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