Raccontare Pablo Picasso in Francia, come immigrato, emarginato, sospetto.
È un punto di vista inusitato quello proposto nella mostra Picasso lo straniero, che fino al 29 giugno, al Museo del Corso – Polo Museale, a Roma, riunisce oltre cento opere del maestro, tra dipinti, sculture, disegni, ceramiche, foto, documenti. Organizzata da Fondazione Roma con Marsilio Arte, la mostra è nata da un’idea di Annie Cohen-Solal, anche curatrice.
Come è nato il progetto?
«In modo casuale. Ho lavorato molto sull’arte, in modo trasversale, prendendo le mosse dalla politica. Nel 2014, quando l’allora presidente francese François Hollande ha inaugurato il Museo dell’Immigrazione e ha parlato dei molti emigrati in Francia non diventati francesi, menzionando anche Picasso, ho iniziato le mie ricerche e ho scoperto che la polizia aveva un dossier su di lui, scritto nel 1901 e aggiornato fino alla sua morte.
Quando ha chiesto la cittadinanza, per paura di essere ucciso da Francisco Franco, gli è stata negata. E quando poi, divenuto un mito, gli è stata offerta, l’ha rifiutata. Ho capito come deve essersi sentito».
Come ha fatto?
«Io sono immigrata in Francia dall’Algeria quando avevo quattordici anni. Conosco bene il sentimento di non essere accettato, essere frainteso, essere considerato un elemento di disturbo. E quando ho visto le foto di Picasso, ritratto come un criminale, nel dossier della Polizia, ho riconosciuto tutto questo. Ha camminato in Francia dai 19 anni ai 93, senza mai diventare francese, stigmatizzato come spagnolo e anarchico. La Polizia voleva proteggere la purezza della nazione. La Francia era chiusa».
Era ancora così il Paese, quando vi è arrivata lei?
«La Francia non è un melting pot come era l’America. Io ero un’ottima studentessa, molto brava in francese, storia, lingue straniere. Ed ero orgogliosissima di portare la voce di poeti e drammaturghi francesi in Algeria. Ero cresciuta in un Paese che era stato colonizzato dalla Francia. Vedevo il Mediterraneo dalla finestra ma sui banchi studiavo la storia della Francia. Io mi sentivo francese».
Che accoglienza trovò?
«Ricordo che a scuola un giorno, quando avevo 15 anni, la professoressa di storia ci diede il compito di fare il nostro albero genealogico. Non conoscevo molto del passato della mia famiglia, così feci un lavoro piuttosto breve. E l’insegnante dopo aver elogiato le mie compagne di classe che potevano risalire al Medioevo, mi chiese: “E la sua storia dove va, si perde nel deserto?” Mi sentii profondamente umiliata, tanto che poi cresciuta ho condotto studi per approfondire le mie radici».
Cosa ha scoperto?
«La mia famiglia è ebrea. Veniva da Palma di Mallorca, un mio antenato era cartografo del re di Spagna, poi con l’Inquisizione ci fu la diaspora. La cattiveria di quell’insegnante mi ha ferita profondamente».
E ha contribuito ai suoi libri e progetti espositivi sul tema dell’immigrazione?
«Ho fatto ricerche su molti personaggi importanti immigrati e ho raccontato le loro storie nei miei libri, costruendo ponti tra politica e arte. Picasso deve aver provato i miei stessi sentimenti e dunque ho potuto raccontare la sua rabbia nei miei libri. Io penso che ogni opera d’arte inizi con un momenti di fragilità. Questa è la mia».
Come l’ha superata?
«Lo sguardo di quella professoressa mi ha fatto capire cosa può aver sentito Picasso quando la polizia lo vedeva come un criminale: so cosa si prova quando qualcuno ti restituisce un’immagine di te, che non è davvero la tua. Ho potuto superare quella debolezza proprio attraverso le ricerche. Quando ho inaugurato la mostra, ho scritto anche a Papa Francesco».
Cosa gli ha detto?
«Sono ebrea ma atea, però ho sentito che il Papa era molto attento agli immigrati. Gli ho chiesto la possibilità di intervistarlo sull’importanza di abbracciare l’altro. Purtroppo non è stato possibile intervistare il Pontefice. Era tardi, era malato».
Oggi, è cambiato il modo di vedere gli immigrati?
«In Francia ho un’amica che ha un compagno senegalese. Quando è da solo, la polizia lo ferma. La colonizzazione francese è stata dura in Africa e gli effetti si vedono».
Lei vive in Italia?
«Vivo a Cortona da molti anni. Ogni città è una piccola Italia. A Roma c’è la Politica e c’è la Chiesa e questo la rende flessibile».
A Roma, anche Picasso nel 1917.
«Nel 1914, per la guerra tra Francia e Germania, furono confiscate tutte le sue opere presso galleristi tedeschi. Perse 800 lavori. Venne a Roma per scappare: aveva perso i dipinti, i contratti, la sua rete. Aveva bisogno di lavorare e si reinventò».
La storia di Picasso “straniero” è venuta alla luce solo ora, nonostante i molti studi: serviva una sensibilità femminile?
«Penso proprio di sì. Credo che la sensibilità femminile e le esperienze mi abbiano aiutata a cogliere gli indizi di malessere nell’Altro. E così anche in Picasso. Ci sono tanti modi per vivere la condizione di straniero o sentirsi tale».
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I segreti di Guernica, emblema di resistenza
Picasso sotto i riflettori. Vita e arte del maestro spagnolo a Roma sono indagati anche in un ciclo di conferenze nell’ambito della mostra Picasso lo straniero. Concepito proprio per approfondire la figura dell’artista, dal punto di vista inedito al centro del percorso espositivo, il cartellone di incontri, il 26 giugno, alle 18, presso il Museo del Corso- Polo Museale, prevede un appuntamento incentrato sul capolavoro di Picasso, Guernica.
L’evento – Picasso e Guernica è il titolo – vedrà protagonista il professore François Hartog. Eseguita dall’artista nel 1937, l’opera è diventata l’emblema universale della resistenza antifascista. Picasso ha impiegato solo trentacinque giorni per realizzarla. Ed è proprio il suo processo creativo, frutto di tecnica ma anche di cultura ed erudizione, che sarà illustrato e investigato da Hartog per comprendere, non solo, come sia nata l’opera ma anche per proporre un’analisi inedita dei “tempi di Picasso”.
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