Andreina Longhi: «Nella moda è l'ora degli innovatori. Stop ai fasulli influencer»

C'è un prima e un dopo Covid. La pandemia è stata uno spartiacque che ha accelerato un cambiamento già in corso».

Parola di Andreina Longhi, una gloriosa carriera tra i più grandi nomi del lusso e fondatrice, più di trent’anni fa, dell’agenzia di comunicazione Attila&Co, una delle più grandi e importanti società di cross media di cui è ceo. Una osservatrice puntuale, tra Occidente e Oriente, di tutto ciò che accade nella moda. Ad esempio, secondo lei qualche errore di valutazione è stato fatto: durante il lockdown si erano alzate voci sull’inutilità delle sfilate. Ebbene, «i fatti le hanno smentite. Senza le sfilate e le relative emozioni non si può stare. D’altro canto, le persone si spostano meno, le riunioni con i clienti ora sono da remoto. E si risparmiano tempo e denaro, oltretutto. Forse per gli show assisteremo a un sistema ibrido: fatto di fisico, per pochi, e di digitale, per gli altri. I grandi marchi organizzano eventi fuori calendario quando, come e dove vogliono, e tuttavia chi si è conquistato con fatica la prima fila non ha intenzione di spostarsi sul divano di casa davanti a uno schermo».

LA GLOBALIZZAZIONE

Una questione di prestigio che coinvolge soprattutto gli influencer. «Anche il loro mondo è cambiato – racconta ancora Longhi – Il pubblico si è un po’ stancato di vederli pubblicizzare qualsiasi prodotto, senza spirito critico. Molti di loro pubblicano semplicemente l’apertura di regali, ma si percepisce che dietro non c’è una reale scelta, tant’è che, poi, spesso trovi quei prodotti rivenduti su eBay, una volta che lo spacchettamento è terminato e postato». Attila&Co sta muovendosi sul mercato dei testimonial sul modello della Cina, visto che l’agenzia ha anche una sede a Shangai. «Lì non vincono i grandi numeri. Chi ha pochi follower ha una relazione più stretta col proprio pubblico e, quindi, riesce a portare più seguito concreto al brand. Uno dei nostri compiti, ora, è proprio trovare partner su misura per i nostri clienti». In Cina i consumatori stanno diventando opinionisti essi stessi e danno il loro parere sui prodotti, mentre le celebrity sono penalizzate: «Si fanno pagare molto per fare ben poco, come postare una sola foto con una capo addosso: non a caso il governo cinese interviene legislativamente su questo paradosso». Va detto che l’online sta diventando una realtà parallela sempre più preponderante anche da noi: «È un mezzo che, se ben utilizzato, può dare molta visibilità a un’azienda e creare un contatto diretto col consumatore. Le grandi boutique lo hanno capito. Basti pensare che un negozio storico e tradizionale come Giglio, di Palermo, sta facendo tantissimo anche sull’online e sta per quotarsi in Borsa. Credo sia un ottimo modo per diventare un punto di riferimento anche internazionale».

LE IDEE

Acquistare navigando, secondo la fondatrice di Attila&Co presenta vantaggi che tutti hanno avuto chiari con il lockdown: «Lo si fa in comodità, confrontando i prezzi, anche di notte e con la certezza che, grazie agli algoritmi, il commesso virtuale conosce già i nostri gusti e stili di vita». Longhi, al momento, non ha visto nulla da mettere nella sua wishlist per la prossima primavera/estate: «Non c’è stato qualcosa che mi ha davvero colpito. Forse solo i giovani come Andrea Adamo, Alfredo Cortese o Federico Cina che, però, poi non sono supportati adeguatamente. Sarebbe auspicabile che i big aiutassero i designer all’inizio: lo vedo fare solo ad Alessandro Dell’Acqua con N°21». E forse non è un caso che, supportata da lui, Nensi Dojaka ha vinto il LVMH Prize 2021. «La designer londinese sta proponendo un nuovo trend molto interessante. Mette in mostra il corpo, ma lo fa da donna, quindi con la libertà di scoprire la pelle senza per questo essere giudicata, assertivamente». Per il resto, delle auspicate novità Longhi vede pochi segnali: «Spesso la moda non è così innovativa come si immagina, ma non è questo il momento di essere conservatori. È un mondo saturo, dove l’offerta è superiore alla richiesta e dove è difficile imporsi: per creare un brand ci vogliono almeno quattro anni e molti si perdono per strada, tanto più che il mercato è sempre più dominato dai grandi gruppi». E questi sono guidati dalla finanza e dal fatturato: «Un meccanismo che, ahinoi, ha già schiacciato tanti ed è nemico della creatività». 

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