Niente cliché o santino: elogio della disciplina, ecco la vera Raffaella d'Italia

La prima pagina del Guardian. I commenti sui quotidiani e le tv spagnole e sudamericane. A Madrid le dedicheranno una piazza. A meno di un mese dalla scomparsa di Raffaella Carrà, si può forse tentare un’analisi del personaggio meno legata ai cliché. Perché di Raffaella Pelloni in arte Carrà molto è stato detto ma, appunto, nel solco della banalità del politicamente corretto. “La Regina del Tuca Tuca”, l’icona gay, la show girl che con i testi delle sue canzoni introduceva nel tinello degli italiani il diritto delle donne a parlare di sesso e il diritto degli omosessuali a fare finalmente coming out. Tutto vero. Ma, appunto, tutto molto mainstream, politicamente corretto, il santino della Donna di Sinistra che senza proclami, a colpi di anca e di canzonette, ha interpretato un’Italia che si faceva più moderna, almeno sotto il profilo del costume. Ecco, se insieme a “quella” Raffaella, avessimo raccontato di più, soprattutto quando era in vita, anche “l’altra”, “la signora Carrà” avremmo forse reso un miglior servizio a una donna di grande intelligenza. E un miglior servizio a un Paese confuso e poco meritocratico. La “signora Carrà” meritava di essere proposta come role model per qualità più significative che non il solo agitare l’ombelico. E Dio solo sa se negli ultimi quarant’anni non ci sia stato bisogno di modelli diversi da quelli proposti dal nostro show-biz.

L’ACCADEMIA

Sarebbe stato utile raccontare com’era davvero Raffaella alle tredicenni italiane soggiogate dal modello “Non è la Rai” del suo ex fidanzato Gianni Boncompagni. In quegli anni ‘90 e anche dopo tante ragazzine hanno sognato di fare tv. Proponendola come role model, si sarebbe spiegato alle piccine che Raffa prima di fare tv aveva studiato all’Accademia nazionale di danza fondata dalla ballerina russa Jia Ruskaia. Avendo compreso che non sarebbe mai diventata una grande étoile, era poi passata al Centro Sperimentale di cinematografia. Ragazza sveglia e provvista anzitempo di quella flessibilità oggi considerata indispensabile, dopo dieci anni di modesti tentativi nel mondo del cinema, Raffaella non si intestardisce, semplicemente evolve. Capisce che la sua strada è quella della tv e la percorre con la stessa implacabile disciplina con la quale, dall’età di otto anni, aveva studiato per diventare prima danzatrice e poi attrice. È chiaro che tutto questo studio le torna utile per la tv. Perché la Carrà sa recitare la parte dell’Italiana pop, che gioca con i fagioli. Sa condurre una conversazione apparentemente improvvisata e invece studiata al millimetro. Sa ballare perché appunto, ha studiato. Ma nell’Italia che, dopo il ‘68, cominciava a mettere in dubbio il valore del merito, era più comodo trasmettere l’immagine superficiale della show girl che avanzava a colpi di Tuca tuca. C’era del merito, invece, dietro quell’ombelico ma forse non conveniva soffermarsi troppo su quell’aspetto anche perché le porte stavano per aprirsi all’era dei “Senza Talento”, ai decenni (anni Novanta/2020 circa) nei quali per arrivare in tv sarebbero serviti le giuste amicizie e i giusti ritocchi del chirurgo estetico. Molto meno lo studio e la disciplina della signora Carrà.

L’ETICA

Alla quale le cronache ammirate ed emozionate dei giorni successivi alla scomparsa non hanno riconosciuto un altro merito: Raffaella Carrà è stata una grande imprenditrice dello spettacolo, è stata la sola e unica che, in qualche modo, poteva confrontarsi con l’americana Oprah Winfrey. La signora Carrà ha venduto sessanta milioni di dischi, ha lanciato decine di programmi di successo, ha tenuto in pugno le platee europee e sudamericane. Senza mai, sottolineo mai, solleticare il peggio del suo pubblico. “Carramba che sorpresa” riuniva famiglie disperse, non le metteva contro. Donna di spettacolo sì, ma non a tutti i costi e a qualsiasi prezzo. Anche questo si sarebbe dovuto e potuto dire, quando era in vita e dopo la sua morte, ma nel santino politicamente corretto non c’era e non c’è stato spazio per ammettere che lei, Raffaella, aveva un’etica. In pubblico e nel privato. Era una professionista e non credo abbia mai avuto bisogno di una qualsiasi droga per credere in se stessa. Né aveva bisogno di “raccomandarsi” perché era lei che portava vantaggi a chi le dava da lavorare. Fin quando la Carrà ha fatto la tv, bastavano i risultati. Se ci fosse ancora, le chiederei di dare una mano al Paese perché torni ad avere fiducia nell’istruzione e nell’educazione. Cambiando un po’ di cose, certo. Le chiederei di girare con me per le scuole d’Italia. E le dedicherei un piccolo saggio: “Elogio della disciplina” del filosofo tedesco Bernhard Bueb. Forse non l’ha mai letto, ma avrebbe potuto scriverlo.

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