Saman, Hina e Sana e i nostri sguardi indifferenti: non possiamo più accettare la barbarie di chi viola le nostre leggi

Le vediamo sugli autobus, alcune velate e altre vestite come le nostre ragazzine. Sono compagne di scuola delle nostre figlie, o figlie di persone che con noi collaborano. Ci sembrano integrate, e invece non conosciamo l’inferno che spesso si dischiude davanti a loro appena lasciano l’infanzia per l’adolescenza. O quando vengono costrette a lasciare la scuola «per dare una mano in casa», vale a dire spezzare il filo che le lega all’unica protezione su cui possono contare. La scuola, gli insegnanti. Sono “quelle come Saman”, quindicenni, sedicenni sballottate tra la vita degli altri, i coetanei che possono innamorarsi, e la vita imposta dalla famiglia, un marito scelto dai genitori e poi figli, tanti, da fare subito, così che non ci sia tempo per pensare ad altro.

IL DESTINO

Saman Abbas, diciottenne di origini pakistane, è stata uccisa, probabilmente dallo zio e con il consenso del padre e della madre. Era diventata “un disonore per la famiglia” perché se n’era andata da casa, aveva chiesto aiuto ai carabinieri per sfuggire al destino di un matrimonio senza amore. Lei l’amore ce l’aveva già e sognava una vita come quella degli altri. Noi, “gli altri” tra poco dimenticheremo il volto di Saman, quegli occhi miti e tristi già inconsciamente consapevoli della tragedia all’orizzonte. La dimenticheremo come abbiamo dimenticato Hina Saleem, altra ragazza pakistana vittima della barbarie familiare, anche lei uccisa (ormai quindici anni fa) dal padre e dai parenti perché “non era una buona musulmana”.

I MARTIRI

Se quindici anni dopo il martirio di Hina, se tredici anni dopo il martirio di Sana, anche lei pakistana, anche lei uccisa dalla famiglia perché voleva sposare un ragazzo di Brescia, se, insomma, nonostante i precedenti e nonostante la galera toccata ai padri o agli zii, oggi in Italia una bambina pakistana può ancora correre il rischio di diventare una giovane donna sacrificata sull’altare dell’onore, allora sarebbe giusto interrogarsi su quel che noi, quelli che viviamo fianco a fianco di questa potenziali vittime sacrificali, non vogliamo vedere.

L’ambasciatore del Pakistan in Italia ha detto a Porta a Porta che la comunità dei suoi connazionali è operosa e rispetta le leggi della Repubblica italiana. Operosa lo è di sicuro, il padre e lo zio di Saman Abbas vengono descritti come eccellenti dipendenti dai loro datori di lavoro. Ma chi sacrifica la vita di una figlia rispetta le leggi del Paese che lo ha accolto o la legge tribale che ancora lo tiene schiavo di bestiali pregiudizi?

LE COMUNITÀ

Quando in Italia arriva una famiglia pachistana, quali impegni sottoscrive con il nostro Paese? E i datori di lavoro così soddisfatti di dipendenti devoti, prima di assumerli si accertano di che cosa significhi per questi nuovi lavoratori accettare le nostre leggi, tutte? L’Ucoi, l’Unione delle comunità islamiche, ha condannato i matrimoni combinati e l’ha fatto pubblicamente con una fatwa. Un gesto importante ma ancor più significativo sarà cercare di penetrare nella testa dei padri, degli zii, dei fratelli, delle Saman che abitano in Italia. Parlare con loro, attraverso l’autorità religiosa che più ha possibilità di essere ascoltata, e insieme attraverso l’autorità della legge. Abbiamo impiegato decenni per sradicare il delitto d’onore dal sud dell’Italia. Non possiamo accettare che la storia si ripeta sotto il nostro sguardo indifferente.

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