Stop alla violenza contro le donne: ripartiamo dall'educare gli uomini

Nove donne uccise a settembre. Qualche domanda in più dobbiamo farcela. E se cominciassimo dagli uomini?

Quanti di loro si sono mai chiesti: da dove nasce tutta questa violenza? Pochi, ancora troppo pochi. E quanti sono pronti a condannare senza mettere in mezzo “se” e “però”, e senza disseminare dubbi che suonano come accuse? Pochissimi, ancora. E quanti riescono ad allungare lo sguardo e a vedere quali modelli, ruoli e stereotipi la alimentano (sì, proprio quelli che pensiamo superati e invece stanno lì, ben nascosti: lui comanda, anche sui sentimenti, lei ci deve stare, anche se non le va)? Di quale cultura, insomma, è figlio tutto questo sangue? Dove abbiamo fallito, come genitori, educatori, cittadini se il nostro piccolo mondo tollera un così alto rischio di morte per la sua metà, le donne? Ancora troppo pochi a interrogarsi, e forse non si può più aspettare.

LA DISCUSSIONE

Crescerà, chissà quando, un po’ di consapevolezza. Ci vorrà il tempo del dubbio e dello smarrimento. Intanto, che si fa? Si continua a chiedere, sempre partendo dagli uomini. Quanti dopo una denuncia, un ammonimento del questore, l’obbligo a non avvicinarsi più alla vittima, a volte una sentenza, capiscono e ammettono: sì, quella era violenza? E non minimizzano, ma lei… Pochi. Ogni cronaca racconta di spari, coltellate, mani strette intorno al collo ma racconta anche – troppe volte – che quel coltello, quella pistola e quelle mani si potevano fermare. Perché non ci siamo riusciti? Avete davvero creduto – tutti e tutte – a ogni singola parola di una donna che implorava aiuto? Avete davvero ascoltato ogni lacrima e ogni sospiro? Avete davvero capito ogni silenzio? Se così fosse stato, forse Vanessa e Rita – tra le ultime vittime – sarebbero ancora qui. E chiediamoci ancora cosa non ha funzionato nelle misure di prevenzione e di protezione, tardive, ignorate, blande? E cosa si fa altrove per fermare i violenti? In tanti Paesi, sono obbligatori percorsi per rieducarli, ormai da anni. Negli Stati Uniti e in Canada – dove il modello è nato – i condannati sono costretti a seguire questi programmi, così pure in Spagna, Germania, Austria e Norvegia, il Paese più avanti su questo fronte. Funzionano. Studi internazionali dimostrano che grazie al recupero la metà non torna più a fare del male. Qui in Italia non c’è alcun obbligo, il Codice Rosso prevede che questi percorsi possano essere alternativi alla pena, ma sempre se si vuole seguirli, nessuna costrizione. E poi c’è il problema: chi li fa? I servizi in Italia sono pochi, tra la rete Cam (Centri ascolto maltrattanti) e Relive, una settantina, «isolati e trascurati», dicono gli addetti, quasi tutti al Centro Nord. Meno di un terzo dei centri-antiviolenza, oltre 250 (che dovrebbero essere ancora di più). Sia chiaro: occuparsi degli uomini non vuol dire trascurare le donne, come qualcuno obietta. «Il lavoro sugli uomini è una delle tante strategie per difendere le donne», ne è convinta la senatrice Donatella Conzatti (Iv) che ha presentato un ddl, ora in Commissione Giustizia al Senato, per introdurre l’obbligo dei percorsi di rieducazione prima della condanna, già per chi ha avuto un ammonimento del questore o una misura cautelare (allontanamento, obbligo di dimora eccetera). È proprio quello il momento più critico. Altrove, Usa e Spagna (il Paese da prendere a esempio), ci sono tribunali specializzati sulla violenza domestica; i braccialetti per sorvegliare gli stalker si usano davvero, i giudici spagnoli li hanno messi ai polsi di 2.500, quelli italiani a pochissimi. Nessuna scusa: i braccialetti ora ci sono anche da noi, ma pochi sanno – nelle procure e nei tribunali – quando e come imporli. E i corsi di formazione per chi si occupa di violenza (Spagna e Francia) sono più diffusi. L’educazione al rispetto comincia dall’asilo (Finlandia), si lavora tanto nelle scuole e nelle università per «svelare le regole non scritte che stanno dietro alla violenza», come vorrebbe fosse fatto qui Stefano Ciccone dell’associazione “Maschile plurale”. «Gli uomini si assumano le loro responsabilità – incalza la senatrice Valeria Valente (Pd), presidente della Commissione femminicidi – quando davvero diventerà un disvalore sociale fare del male a una donna, avremo fatto un grande salto avanti». Si riparta da qui, allora, da una condanna decisa, senza ombre, da una rivolta collettiva (e dovrebbero guidarla gli uomini), dall’indignazione condivisa, dall’educazione, dalla consapevolezza sincera che fare del male a una donna è un crimine, il peggiore. Un’ultima domanda: quanti l’hanno davvero capito?

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