Il premier Draghi: «Figli o lavoro, le donne non dovranno più scegliere»

Lavoro o figli? Una scelta a cui le donne, oggi ancora più di ieri, sono condannate. Non dovrà più essere così, è l’impegno del premier Mario Draghi. «Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e a un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro», dice il presidente del Consiglio a MoltoDonna. Il Recovery Plan è un’occasione da non perdere per ridurre le diseguaglianze che la crisi Covid ha aggravato. Non a caso Draghi assicura che «tra i vari criteri che verranno usati per valutare i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ci sarà anche il loro contributo alla parità di genere». Per non dire del fatto che il rilancio del Paese «non può prescindere dal coinvolgimento delle donne». Con le nuove generazioni in prima linea. «Intendiamo investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese», spiega ancora il premier. «Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese».

LE STORIE

Quel dilemma che Draghi vuole che sia superato accompagna intanto la vita di tutte le mamme. Come Valentina, imprenditrice romana, che anche oggi dovrà scegliere: i figli o il distributore di benzina? Anche oggi si sentirà comunque colpevole senza colpe e dimezzata. Se resta a casa e non apre la sua attività all’Eur, rischia la revoca della licenza. Ma se apre, che faranno la piccola di tre anni e il grande di sette? Le scuole sono chiuse, il compagno è malato, non ci sono bonus baby sitter o congedi straordinari per lei. Anche oggi – purtroppo – Valentina potrà contare solo sui suoi “super poteri” di mamma. Che vuol dire: avere l’intraprendenza della manager, l’agilità dell’equilibrista e la resistenza della maratoneta, la capacità organizzativa di un generale e la pazienza di un ragno. Troppo. Ma quand’è che alle mamme lavoratrici si chiederà di essere semplicemente donne con figli e con un lavoro. Né sante né guerriere. Quando si comincerà a valorizzare le “competenze” conquistate tra pannolini, biberon e consigli di classe, smettendo di punire chi le ha con fatica guadagnate. E soprattutto, quando arriverà il tempo in cui nessuna – ma proprio nessuna – sarà costretta a scegliere. Non è un caso se una su 4 lascia al primo figlio, se siamo al record negativo di nascite (meno 22% nel dicembre 2020 rispetto all’anno precedente, secondo i dati Istat di 15 città), se l’11% delle mamme non ha mai lavorato, se il 73% di chi si dimette ha famiglia.

«Mi chiamo Asia, ho 24 anni, un bambino di 3. Mi è stato chiesto da un giorno all’altro di passare da un contratto part time ad uno full time. Ho dovuto rinunciare al lavoro, non riuscivo a conciliare».

Ci mancava la crisi Covid. Oltre 400mila lavoratori in meno, il 70% donne. «Tra marzo e dicembre 2020, le pratiche da noi istruite per dimissioni volontarie sono triplicate», osserva Carolina Casolo, fondatrice di Sportello Mamme, un servizio servizio digitale specializzato nella richiesta di ammortizzatori, indennizzi e sostegni al reddito per mamme e papà. «A gennaio di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2020 il nostro team ha lavorato il quadruplo delle domande». E nonostante siano vietate per legge, resiste ancora «l’odioso ma purtroppo diffuso fenomeno della firma delle dimissioni in bianco», come ha ricordato il presidente Mattarella l’8 marzo.

«Sono Gloria, 35 anni, di Pistoia, ingegnere informatico. Lavoravo in una multinazionale, ero incinta del terzo figlio e non mi hanno rinnovato il contratto».

LA FUGA

Alla fine, stremate, si molla. «Le donne in queste condizioni non ce la fanno a lavorare, tra dad, smart working e congedo parentale pagato dalla maggioranza delle aziende al 30% e non al 50, come dovrebbe essere. Sempre di più preferiscono dimettersi e usufruire dell’indennità di disoccupazione», spiega Carolina Casolo. Se una mamma si dimette entro l’anno di vita del figlio ha diritto alla Naspi, l’assicurazione sociale per l’impiego. «Con la pandemia è emersa l’assenza di strutture a supporto della famiglia e lo smart working non può essere assolutamente considerato uno strumento di conciliazione. Chi lascia poi ha difficoltà a rientrare, torna a dipendere economicamente dal marito o compagno, i conflitti aumentato. Vediamo che questo percorso sta disgregando le famiglie. E cresce la paura di fare figli».

«Sono Paola, ai colloqui mi chiedevano di promettere di non restare incinta, ”pena” lavorare il minimo delle ore o essere licenziata una volta rientrata dalla maternità».

LA SCATOLA

Cristina Silvieri Tagliabue, cofondatrice del movimento “Giusto Mezzo”, mamma di un bimbo di 3 anni e mezzo, ha messo in una scatola gli arnesi del mestiere: il tesserino professionale, i libri che ha scritto, i ciclostili. Da consegnare al governo, come hanno fatto le altre attiviste: #RestituiscoilPacco. In queste condizioni non si può lavorare. «Gli asili nido e le materne devono riaprire subito. Mi si spezza il cuore a vedere mio figlio con la cuffia davanti allo schermo, in dad. Più investimenti per permetterci di lavorare: questa è la nostra battaglia sul Recovery Plan». I nido oggi coprono il 25,5% delle esigenze, solo il 12% dei bambini può frequentarne uno pubblico. «Chiediamo che si arrivi a una copertura del 60%. Servono 4 miliardi in più, rispetto ai 3,6 assegnati dal Pnrr, perché ogni bambino abbia diritto al suo posto. Il tempo delle donne deve essere liberato dalla cura. Oggi siamo le partigiane della famiglia, più che di resilienza possiamo parlare di resistenza. Oltre alla transizione ecologica è necessaria una transizione sociale, bisogna investire in un ecosistema giusto. E cominciare a pensare in termini di infrastrutture e servizi».

«Sono Laura, tornata dalla maternità non trovo scrivanie e clienti. Due settimane prima che mio figlio fa un anno, mi comunicano che devo licenziarmi. Rifiuto. Mi licenziano».

In questo anno abbiamo “spiato”, con le videocall, la vita in affanno delle famiglie. «La pandemia ha reso visibile quello che prima ci raccontavamo», Riccarda Zezza, fondatrice e ceo di Lifeed (la edtech company che trasforma anche le attività di cura in competenze soft) da anni sostiene che la maternità – così come la paternità – deve valere come un master. «Paradossale che anche in una situazione emergenziale si consideri normale che tutto ricada sulle spalle delle madri». Partivamo – in epoca pre-Covid – da un gap drammatico. Tempo dedicato dalle madri alla famiglia: 29,68 ore a settimana. Tempo dei padri: 8,13. E siamo ancora lontanissimi da un equilibrio accettabile. «Secondo una nostra indagine in questo anno le donne hanno allenato, più degli uomini, resilienza, decision making, capacità di visione e di iniziativa, gestione del cambiamento, problem solving, leadership. Il 55% delle mamme dice di sentirsi più forte, l’85% delle donne ha migliorato la capacità di prendere decisioni. Mi stupirei che non fosse ora evidente che stiamo allenando soft skill da sfruttare sul lavoro, competenze comuni tra ruolo professionale e familiare. Siamo multi-shifting, ossia capaci di spostare velocemente l’attenzione da una parte all’altra. Non si può buttare via tutto questo». Primo traguardo? «Subito uguali congedi parentali tra genitori per consentire una vera condivisione».

«Sono Samantha, lavoravo in un’azienda dove alle donne in maternità si faceva mobbing. Ora ho una partita Iva. Poche tutele, pochi asili nido. Dove li mettiamo i bambini per tornare a lavorare?». Samantha, come Asia, Laura, Paola e le altre che hanno raccontato la loro storia al movimento “Giusto Mezzo”. Nell’Italia 2021, le mamme scelgono ancora.

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